Partiamo dalla fine, dalla domanda che Ermes Antonucci su Il Foglio evidenzia che andrebbe ripetuta a tutti i mebri di una certa magistratura. “Ma lei come interpreta la sua funzione di magistrato?”.
“Combattente” risponde De Pasquale durante la sua deposizione. Non l’avremmo mai detto ma è un soldato, meglio si sente un soldato, lui i processi li combatte, non li istruisce. Roba da far tremare i polsi. Ha avuto una vista professionale travagliata, un povero cristo che merita tutta la nostra compassione!
Un Ruolo (notare la R maisucola…) che in virtù del potere di privare della Libertà, della possibilità di guardare in ogni angolo della vita di una persona, imporrebbe EQUILIBRIO, RISERVATEZZA, NEUTRALITA’ e una lunga serie di altre caratteristiche che ne determinano l’INDIPENDENZA.
E invece no. Emergono caratteristiche diverse: assenza di terzietà, superiorità olre ogni limite, conoscenza assoluta della verità fino a decidere quali prove sono confuse e quali no, quali testimoni dicono il vero e quali no. Nei migliori bar di Caracas tutto questa sarebbe stato riassunto in “una faccia come il culo”.
I video di Armanna erano confusi, le farneticazioni di Amara chiare e verissime, il collegio giudicante che lo ha ritenuto inattendibile sarà stato, deduciamo, un branco di farneticanti insurrezionalisti!
Non resta che attendere l’esito di una performance giudiziaria che avvince sempre di più, superandosi a ogni occasione. Concludiamo con una domanda. “Ma dopo lo lascerete ancora lì?”
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Fanatismo giudiziario
di Ermes Antonucci
Il Foglio, 26 aprile 2024
“Ho avuto una vita professionale travagliata, anche per il tipo di processi combattuti”. Più che una deposizione, quella tenuta martedì dal pm milanese Fabio De Pasquale al tribunale di Brescia, dove è imputato insieme all’ex collega Sergio Spadaro con l’accusa di aver nascosto prove a favore dei vertici Eni (poi tutti assolti) nel processo Nigeria, è stata una descrizione emblematica del paradigma culturale che anima certi pubblici ministeri. In sei ore De Pasquale, uno dei simboli della procura meneghina, si è autorappresentato come un soldato, un magistrato che i processi non li istruisce, ma li combatte. Così la giustizia diventa una guerra, in cui non sono ammessi dubbi, incertezze, esitazioni.
Per questo quando il pm Paolo Storari nel febbraio 2021, a poche settimane dalla sentenza sul maxi-processo contro Eni e Shell per corruzione internazionale in Nigeria, portò all’attenzione dei suoi colleghi De Pasquale e Spadaro diverse prove che dimostravano l’inattendibilità di Vincenzo Armanna, il supertestimone valorizzato dall’accusa, gli inquirenti – ora sotto processo – decisero di ignorare tutto. Quello di Storari, a detta di De Pasquale, era “solo un polverone”, “un’accozzaglia di congetture per distruggere la credibilità di Armanna a poche udienze dalla fine del processo”, “un minestrone” che conteneva “elementi non pertinenti”. Alla domanda del presidente del collegio Roberto Spanò se non dovesse spettare al tribunale di Milano valutare la pertinenza di quegli elementi, De Pasquale ha insistito, palesando sempre di più il fastidio che i dubbi avanzati da Storari avevano generato in lui, quasi costituissero una lesa maestà: “Era una polpetta avvelenata”. “Erano ciarpame prima e sono ciarpame oggi”. Fino al culmine: “Fu un atto ostile”. E da dove sarebbe derivata l’ostilità di Storari? “Evidentemente mi odiava”, risponde De Pasquale.
D’altronde se i processi si combattono, come afferma lui stesso, chiunque cerchi di mettere in dubbio le tesi dell’accusa è da ritenersi ostile. “Ritiene che lei sia arbitro esclusivo della rilevanza di una prova o che il giudizio sulla rilevanza debba essere condiviso con le parti processuali, la difesa, il tribunale?”, chiede Spanò a De Pasquale, rincarando la dose: “Ci chiediamo come lei interpreti la funzione del pubblico ministero”. Ma è tutto inutile, dal cortocircuito non si esce: “Io non produco cose irrilevanti”, dice De Pasquale.
Eppure parliamo di un video in cui Armanna minaccia di far cadere una “valanga di merda” e “avvisi di garanzia” su Eni, di messaggi in cui Armanna concordava il versamento di 50 mila dollari a due testimoni, di chat falsificate, di messaggi in cui Armanna indottrinava un testimone in vista del processo. “Erano elementi confusi e non pertinenti”, ripete De Pasquale, nonostante il tribunale di Milano nella sentenza di assoluzione abbia definito “incomprensibile” la scelta della procura di non depositare queste prove.
Al contrario, vennero ritenute pertinenti le illazioni di Piero Amara su un presunto avvicinamento dei legali di Eni a Marco Tremolada, il presidente del collegio giudicante, tanto che queste vennero trasmesse ai magistrati di Brescia, competenti sui magistrati di Milano, i quali aprirono un’inchiesta, poi archiviata in virtù dell’inattendibilità di Amara. De Pasquale e Spadaro invece chiesero, senza successo, di ascoltare in aula Amara. Un atto gravissimo, poi censurato anche dallo stesso tribunale, che accusò la procura di aver tentato di mettere in dubbio “il carattere di terzietà” del collegio di giudici.
Un doppiopesismo nel valutare la rilevanza degli elementi emersi nell’indagine di Storari che fa a pugni con la logica. Ma non con quella bellicista fatta propria dai pm milanesi, manifestata con chiarezza da De Pasquale: “Ho avuto una vita professionale travagliata, anche per il tipo di processi combattuti”, ha detto durante la deposizione. Come se un pubblico ministero dovesse combattere i processi, sulla base di tesi precostituite, e non affrontarli secondo le norme del codice di procedura penale, cercando anche di accogliere eventuali prove che vadano in senso contrario alle proprie ricostruzioni.
Se a questo si aggiunge il tentativo della procura milanese di far fuori il presidente del collegio giudicante a pochi giorni dalla sentenza, nella speranza che la propria ipotesi accusatoria venisse accolta dal tribunale, si ha il quadro completo dello spirito che sembra animare una certa magistratura. Inevitabile, infatti, andare oltre il caso Eni-Nigeria. Di fronte ai tanti flop giudiziari e ai tanti innocenti arrestati e poi assolti sarebbe curioso rivolgere alle toghe coinvolte la stessa domanda rivolta da Spanò a De Pasquale: “Ma lei come interpreta la sua funzione di magistrato?”.